Il delirio Di tutti gli organi siamo abituati a conoscere, più o meno, che funzione hanno, o comunque a pensare che ne abbiano una. Il cervello fa eccezione per il modo in cui lo consideriamo: ne sappiamo la forma, dove sta, ma poi quando vediamo le sue manifestazioni (i pensieri, i sentimenti, i comportamenti) non pensiamo sia possibile che siano il risultato della funzione di un organo. Spirito, anima, energia, sono concetti che accettiamo intuitivamente, anche se non fanno parte della nostra esperienza concreta. Il cervello lo vediamo, sappiamo in maniera abbastanza dettagliata come funziona, ma poi ci sembra “strano” pensare che la mente sia una sua espressione. Uno dei modi per “accorgersi” che il cervello è quello di studiare le sue malattie.
Dai cambiamenti e dagli sconvolgimenti, dallo studio dei “pezzi” che mancano o si alterano si ricostruisce la struttura del motore, e il suo funzionamento quando è integro e in equilibrio. Studiare le malattie significa in psichiatria, più che nelle altre discipline, vedere il malato e registrare come si esprime, perché il cervello, così come gli altri organi, non può impedire a se stesso di manifestarsi per quel che è. Non mente, e si rivela con i suoi segni: pensieri, emozioni, atteggiamenti, reazioni. Certamente la maggior parte di noi non è abituato a vedere ogni giorno i malati, e non ha una precisa idea delle malattie, eppure la cronaca, specie quella nera, stupisce e colpisce per comportamenti che sono presentati come “incomprensibili”, o come fulmini a ciel sereno in vite apparentemente normali. La “follia” è immaginata come un sovvertimento totale, in cui non ci sia un pezzo a posto, cosa che non corrisponde a verità. Soprattutto, i “pezzi” che vanno fuori posto, non è detto che lo siano sempre e comunque, e infatti vi sono “follie” intermittenti, molto più frequenti delle “follie” stabili. Si sente spesso il termine “raptus” o “stato confusionale”, che esprime l’idea di una perdita di controllo totale e improvvisa, come se il cervello fosse “posseduto” (rapito letteralmente) da una forza che lo agita a caso e lo spinge in direzioni insensate o eccessive. Ma il “raptus” non spiega quasi mai niente se si pensa che sia una specie di “marasma” in cui la persona va in tilt, e infatti si sente spesso dire che la persona era “folle ma lucida”. Il termine “follia” non significa niente di preciso in psichiatria, ma se c’è un termine medico che si avvicina a questo è psicosi. Psicosi significa semplicemente una complessiva alterazione del modo in cui la persona percepisce l’ambiente, e di come lo elabora, cioè cosa pensa della sua situazione e dell’ambiente in cui vive. Il sintomo cardine della psicosi è il delirio. Delirare è uscir fuori da un pensiero costruito in maniera comprensibile, pensare in maniera quasi automatica rispetto a spunti interiori, o a stimoli esterni, andando per associazioni, o per temi generali, e senza un filtro che distingue il “vero” dall’immaginario. Chi delira, non ha più fantasia. La fantasia, l’immaginazione, è una funzione che esiste nel momento in cui la persona riesce a pensare a ciò che non esiste, ma non per questo lo sovrappone alla realtà, anzi coltiva le proprie fantasie con desiderio, con ambizione, con rimpianto, con divertimento o fascinazione personale. Nel delirio gli elementi iniziali di un pensiero, quello che “viene in mente”, nasce come “vero”, non è solo un elemento iniziale, ma un dato di fatto. Banalmente, se qualcuno per strada mi guarda con un’espressione che sembra ostile, già il fatto che io pensi “sembra ostile”, significa che vedo una faccia con espressione ostile ma automaticamente ho un filtro che mi fa pensare che non c’è motivo perché lo sia: quindi quella persona avrà avuto chissà quale motivo per avere quella faccia, e sembrerebbe ostile se ci fosse qualche ragione per pensare che ce l’abbia con me. Il delirante non verifica quel che pensa, va soltanto avanti con un ragionamento che parte dal presupposto “mi guardava male”, e da qui può costruire, con altri elementi del genere, presi da dentro o da fuori, l’idea che ad esempio ci sia un complotto contro di sé, o che sconosciuti lo stiano seguendo per controllarlo, o per fargli del male, o che stiano comunicandogli qualcosa che non riesce a capire. Piano piano, la costruzione di complica e i significati si definiscono, in maniera sempre più contorta e complessa. Ogni dettaglio, anziché non aver niente a che vedere con il pensiero iniziale, diventa forzatamente un elemento da incastrare, un tassello di puzzle che deve combaciare e viene ritagliato in maniera che lo faccia. In questo modo la persona non capisce più la realtà per come è, ne prende elementi che gli fanno tornare il pensiero iniziale, il resto è oscurato o archiviato, e dettagli insignificanti diventano chiavi di lettura importanti. Addirittura, se quella persona che ci guarda male poi ci saluta cordialmente, perché magari la conosciamo, il delirante non penserà: “mi sono sbagliato allora, non era arrabbiata”, ma penserà invece “ecco, mi prende in giro, vuole alludere al fatto che ce l’ha con me in maniera ironica”. Il delirante era anche indicato con il termine di “alienato”, proprio perché la sua realtà era estranea a quella degli altri, e viceversa. Proprio come un “alieno” che comunica in una lingua non comprensibile e traduce in maniera incomprensibile a noi la nostra lingua. La persona non si rende conto di questa anomalia, e non è detto che l’intero suo comportamento sia alterato. Alcune persone possono essere convinte in maniera incomprensibile di una “verità” o di una “realtà”, senza riuscire a spiegare in che modo lo hanno concluso. Non lo hanno mai concluso, lo hanno solo pensato come vero, e quindi “è vero”, anche se non riescono a giustificarlo in termini di logica. Il problema è che neanche ritengono di verificarlo, cioè non si tratta di una intuizione o di un’ipotesi, magari stramba o apparentemente insensata, è una “realtà” già nata vera, su cui si basano per fare scelte e deduzioni. I deliranti di solito sono anzi convinti che il loro pensiero sia “superiore”, perché è arrivato a capire “l’essenziale”, il vero assoluto, talmente vero che non ha bisogno di prove, questo perché lo sentono vero e non hanno alcun dubbio che lo sia in partenza. Di fatto, avere una convinzione del genere fa sentire molto “indipendenti” e realizzati, perché si è la fonte della verità, parte della verità, e non semplicemente un cervello che ragiona e cerca risposta ma non ha mai nessuna certezza o quasi. Quando la vita di una persona delirante si svolge in un doppio binario, tra una parte comune agli altri e una “delirante”, si parla di para-frenia. Il parafrenico in genere coltiva il suo delirio ma non entra in conflitto con gli altri, se non quando viene contraddetto o criticato. Si possono avere deliri religiosi, sul paranormale, su fatti di vita mai successi (false memorie), sui rapporti con gli altri, sulla propria identità “segreta”, su invenzioni che si sono concepite, su catastrofi imminenti. Il parafrenico può fare scuola, perché le sue verità piacciono e anzi entusiasmano gli altri o li convincono. La parola schizo-frenia è molto conosciuta, anche se usata a sproposito. Schizofrenico, nel linguaggio comune, significa una persona instabile, che cambia modo di pensare e di atteggiarsi, come se fosse due persone diverse, o più persone diverse, a seconda del momento, con sbalzi d’umore e di “carica” (da indifferente a agitato), capace di decisioni improvvise e impulsive. Questo significato c’entra poco con quello tecnico, e ricorda invece quello che si dice tecnicamente un “bipolare”. La schizofrenia è una malattia che “spezza” le normali vie di organizzazione della persona, ovviamente sulla base di alterazioni del cervello. In particolare, mette in comunicazione pensiero e comportamento in maniera slegata rispetto al “significato” affettivo delle cose. Contrariamente a quanto pensiamo, il solo senso razionale di ciò che pensiamo non motiva i nostri comportamenti, i quali sono resi più o meno probabili, e orientati in un senso piuttosto che in un altro, dal nostro stato emotivo. Facciamo scelte emotive, corrette in maniera razionale, ma sostanzialmente ciò che per noi ha un senso risponde ad un equilibrio “affettivo”. Anche le memorie, di ciò che vogliamo ripetere, di ciò che ha avuto peso, sono sostanzialmente emotive. Nello schizofrenico l’emozione è appiattita, si esprime quantitativamente, come stato di agitazione o di indifferenza in termini di movimento, ma quel che è perso è il significato. Ciò che lo schizofrenico pensa è una costruzione che nasce dal nulla ma finisce in comportamenti, senza un’emozione a giustificarlo. Rimane solo a volte una logica dal pensiero al comportamento, ma una logica che è come un brano di un racconto, in cui si capisce lo svolgimento di quel pezzo, ma non si sa bene quale sia la storia, né ci si può immedesimare nei personaggi. Ogni parte è come una puntata di un teleromanzo che però cambia trama, si capisce la sceneggiatura ma non si capisce la trama. La schizofrenia è una condizione che progredisce, e in genere negli anni i pensieri e deliri si riducono in quantità e complessità per lasciar posto ad una specie di “vuoto” psichico, indifferenza, apatia, povertà di idee e di ragionamenti, istinti sempre meno vivaci. Nei tempi passati questa forma di psicosi era indicata anche come “demenza a inizio giovanile” per contrapporla alle demenze senili: il cervello schizofrenico funziona senza avere uno smistamento emotivo delle emozioni, e con alcuni automatismi tra pensare una cosa e tradurre il pensiero in azione letterale. Diversi film hanno descritto gli stati psicotici, ricordiamo “A beautiful mind”, “Spider”, “Ipotesi di complotto”. Un film meno recente che descrive una parafrenia è “Harvey”, interpretato da James Stewart, cui il protagonista vive con un amico immaginario. Ci parla ed è convinto che gli altri lo vedano e ci parlino, ed è un gigantesco coniglio bianco, che una sera da ubriaco a visto per la prima volta appoggiato ad un lampione. Il protagonista vede ciò che non esiste, o è comunque fuori dalla comune esperienza, ma non si pone il problema di capire come può esiste un enorme coniglio bianco parlante che lo segue e vive con lui. Semplicemente sa che è così. Anzi, quando gli chiedono, ingenuamente, perché abbia chiamato questo amico “Harvey”, lui risponde che quello è il suo nome, e spiega come lo ha “saputo” con un non-senso logico che è nient’altro che un esempio di pensiero delirante. I temi del delirio sono temi umani, così come i contenuti. I deliri nel loro contenuto riproducono, come i sogni, le esperienze e le fantasie. Quel che colpisce per anormalità è l’imcomprensibilità, anche per la persona stessa, che dopo essere “uscita” dal delirio non ricorda, oppure non ricostruisce le ragioni per il suo comportamento, anche se ricorda che cosa aveva pensato. Non c’è più il senso che legava gli elementi del pensiero, anche perché non vi era senso, per cui una volta recuperata la capacità di giudizio, due cose che nel delirio erano associate (ad esempio: il tale è vestito di giallo, quindi mi vuole uccidere) non appaiono più legate: la persona ricorda che si è difeso e magari ha ucciso quella persona perché pensava che la volesse uccidere in quanto vestita di giallo, ma non capisce perché avesse fatto questo ragionamento. A volte è come se i comportamenti fatti dietro al delirio li avesse fatti qualcun altro, e visto che il delirio è spesso frammentario, può darsi che la stessa persona non riferisca più a sé atti che ha compiuto in passato, perché ogni “pezzo” di vita non è connesso all’altro, manca un senso affettivo, manca una logica che rende continua la storia, ci sono tanti capitoli ma non compongono alcuna storia, come se ognuna fosse di un libro diverso. In cronaca nera spesso ci sono casi in cui la persona è condannata per aver ucciso ma afferma di non ricordare, oppure ha memorie confuse, frammentarie, come se rivivesse un sogno, o non sapesse se ha visto o se l’è sognato. Da qui originano versioni confuse, contraddittorie, in cui appaiono complici o assassini fantomatici, che possono essere la rappresentazione della persona stessa per come “delirava” di essere in quel momento, o il risultato di un ricordo di se stessi che però non si associa ad un riconoscimento. La persona ad esempio può descrivere se stesso che faceva un’azione, ma affermare che era un altro, con un altro nome (magari inventato), un altro ruolo, altri connotati. La persona delirante, specialmente lo schizofrenico, può ad esempio “scomporre” la sua mente in diverse personalità, come se a seconda dei pensieri, o dei momenti, non riconoscesse sempre “se stesso”, ma diverse entità, che magari entrano o escono, o si inseriscono da fuori, o lo influenzano e lo guidano, che magari chiama con nomi diversi. Ad esempio: A tornava a casa, ha incontrato B e poi è venuto anche C che li ha convinti a fare una determinata cosa, può significare che i diversi stati d’animo o pensieri “creano” diversi personaggi, come se fossero diverse “anime”, ma in realtà la persona sta raccontando di come da solo abbia fatto una cosa (lui era A, B e C). Il potenziale di pericolosità delle psicosi ovviamente c’è, specialmente quando avvengono all’interno di malattie precise (abuso di droghe, malattia bipolare, schizofrenia, paranoia) ma è anche vero che ci sono molti deliri socialmente accettati (parafrenie semplici), e che possono anche non avere implicazioni aggressive, ma anzi essere alla base di filoni culturali o di mode (sull’alimentazione, la salute, l’orientamento “spirituale”, lo stile di vita). Il rischio “passivo” per le persone che delirano è se mai quello di essere facilmente plagiate o irretite da persone o organizzazioni che organizzano il delirio come attività di gruppo o di comunità a fini speculativi, e spesso impediscono alle persone di curarsi, o li condizionano perché non lo facciano. Una delle cause più comuni nei giovani di psicosi, specialmente nelle forse temporanee, sono le droghe. Casi di cronaca nera in cui ci sono giovani o giovanissimi responsabili di omicidi, magari pianificati e poi attuati in maniera cruenta, si caratterizzano un uso di droghe in corso nel periodo precedente, fatto che è citato ma anche sottovalutato, come se la causa del “male” dovesse essere ricercato nella cultura e nella società, o nella personalità deviata. In realtà fino ad un certo punto di sentimenti negativi, d’indifferenza per gli affetti familiari, di narcisismo e ricerca del proprio tornaconto, ci arrivano in molti. Le droghe possono fare la differenza quando fanno credere alla persona di avere trovato una soluzione, veramente buona, con un senso che risolve tutto il resto, e per tutto il tempo a venire. In particolare la cannabis, in questi anni, è oggetto di preoccupazione come possibile causa di psicosi “nuove” e durature nel tempo. Anche i casi di suicidio, in parte, non sono semplicemente gesti finalizzati a non soffrire, ma atti impulsivi in cui c’è, in quel momento, un senso delirante, che nessuno potrà più ricostruire con precisione. Ci sono casi di suicidi compiuti per delirio di rinascere in un mondo migliore, di salire di livello spirituale, o di uccidere una parte negativa per permettere a quella positiva di vincere, o di influenzare gli eventi con la propria morte. Alcuni depressi si suicidano delirando che con la loro morte le loro colpe (immaginarie) saranno perdonate, e che i loro familiari si salveranno con il loro sacrificio. Alcune persone in fase di sovraeccitamento si uccidono senza rendersene conto convinte di essere immortali, o di essere chiamate in cielo, o di avere superpoteri. Alcuni schizofrenici si uccidono o si fanno male, o lo fanno agli altri spinti dalle “voci” che sentono e che per loro sono nient’altro che una istruzione da eseguire. Un famoso caso di pluriomicida americano, il “figlio di Sam”, prese questo soprannome perché lui stesso rivendicava i delitti dicendo di essere il figlio (spirituale) di tale Sam, suo vicino di casa che nel suo delirio, tramite l’abbaiare del suo cane, gli comunicava quando e chi uccidere. Egli stesso a tratti considerava questo Sam come una specie di divinità da rispettare, altre volte come un demone che lo obbligava a fare cose che lui non avrebbe voluto, rendendolo uno strumento nelle sue mani con una coercizione mentale. In diversi omicidi compiuti da persone psicotiche la prima reazione è di solito chiedersi “come ha potuto uccidere ?”, mentre si presta poca attenzione al fatto che la parte meno comprensibile del tutto è se mai la costruzione di ragioni deliranti sulla base delle quali la persona decide di uccidere, a volte con l’urgenza di chi si sente minacciato della propria vita, integrità, reputazione, e così via. Dietro molti apparenti “raptus” vi sono storie anche lunghe di deliri nel tempo sempre più continui e sempre più complessi, come un processo che raccoglie prove su prove sempre nello stesso senso, e scopre complotti sempre più grandi e minacciosi. Della parte finale, aggressiva, colpisce anche e se mai l’estemporaneità, cioè perché sia avvenuta in quel momento piuttosto che in un altro qualsiasi, e perché non prima. Questo è solitamente legato a fattori di vario tipo, e al fatto che il comportamento della persona delirante è disorganizzato anche nel produrre risposte aggressive. Troppo spesso si confonde il delirio con il genio intuitivo, come se lo scienziato innovatore e geniale, che “pesca” i suoi pensieri dal nulla, anzi in controtendenza, fosse uno psicotico più fortunato di altri, che invece finiscono in ospedale psichiatrico. Niente a che vedere, poiché lo scienziato che ha una “folgorazione” senza sapere come gli è saltata in mente, procede poi a verificarla, cosa che lo psicotico non fa. Il delirio presuppone un solo passaggio, pensa e quindi deduce, non ha bisogno né interesse a verificare niente, gli basta “sapere” già. La “follia” può riguardare uomini geniali, ma non è la stessa cosa del genio. Non ha neanche a che vedere con un problema d’intelligenza, o di carattere. E’ un tipo di “avaria” a volte breve, a volte costante, che può riguardare il cervello umano, di chiunque. Il delirio non riguarda neanche la fantasia, poiché la capacità di fantasia non è così lontana da quella di memorizzare, elaborare e associare gli elementi della realtà, tanto da poter creare anche realtà immaginarie. I cervelli geniali e intuitivi, veloci e con grandi capacità di associazione e di fantasia, possono avere ad un certo punto dei deragliamenti, e delirare, ma quando questo accade la loro capacità creativa, di ragionamento e di invenzione si rompono e si disorganizzano. In particolare, questo è vero nel caso della psicosi bipolare, o malattia maniacodepressiva. Si può quindi dire che nei “grandi” spiriti vi è un seme che predispone sia alla vivacità intellettuale, sia alle intuizioni innovative, sia al coraggio di rompere gli schemi, ed anche alla possibilità di andare periodicamente “in tilt”.
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